Il saggio Olivetti e i “pirla a 5 stelle”
Il professor Marco Olivetti, docente di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell’università di Foggia, è uno dei «saggi» componenti della Commissione per le riforme costituzionali istituita dal Presidente del Consiglio Enrico Letta. Già nel periodo 1999-2001, Antonio Maccanico, allora Ministro delle riforme istituzionali, aveva incaricato il professor Olivetti di redigere alcuni studi sui temi della stabilità di governo (1999), delle nuove frontiere della democrazia diretta (2000), del riparto di competenze tra Stato e regioni (2000) e sui metodi di cambiamento della Costituzione (2001).
Lo stesso professore risulta socio fondatore, assieme all’onorevole Luigi Bobba, deputato del Partito democratico, dell’associazione «Persone e reti» ed è stato – e non si sa se lo sia ancora – consulente del gruppo parlamentare del Partito Democratico nella scorsa legislatura. Appare pertanto evidente in che quota sia stato chiamato dal Governo a far parte della Commissione dei saggi.
La Commissione si è riunita domenica 15 settembre 2013 presso l’Hotel a quattro stelle «Villa Maria» di Francavilla al Mare (Chieti) per ultimare la relazione finale da consegnare al Governo per la consultazione delle Camere. Alla riunione ha partecipato anche il professor Olivetti che, alla vigilia dei lavori, ha aggiornato il proprio profilo Facebook con le seguenti parole: «Ecco che arrivando a Francavilla mi appare un corteo dei pirla a 5 stelle».
Con l’interrogazione parlamentare a risposta scritta n. 4-01849 del 17 settembre 2013 (leggi il testo), abbiamo chiesto al Governo, ed in particolare al Ministro per le Riforme Costituzionali se fosse al corrente dell’espressione utilizzata dal professor Olivetti per descrivere i manifestanti del Movimento 5 Stelle e se intendesse chiedere spiegazioni circa le ragioni di tale comportamento.
Abbiamo anche chiesto al Presidente del Consiglio di voler meglio specificare le motivazioni che hanno portato alla nomina del professor Olivetti a componente della Commissione, fugando il dubbio che si sia perpetuata la prassi di affidare incarichi e consulenze ai soliti noti anziché privilegiare il merito e l’assoluta imparzialità. Di certo le parole pronunciata dal «saggio» Olivetti vanno a squalificare la credibilità dell’intera Commissione voluta dalla maggioranza di Governo.
Filippo Salsone, vittima della mafia senza contributi
All’inizio degli anni ’80 il maresciallo della polizia penitenziaria Filippo Salsone prestava servizio presso il carcere di Cosenza in stretta collaborazione con l’allora direttore Sergio Cosmai. Salsone era considerato una spina nel fianco dai detenuti e dagli esponenti della criminalità organizzata locale per la sua integrità e per l’impegno nel far rispettare le regole all’interno del carcere. Per queste ragioni, il 7 febbraio 1986 il maresciallo fu assassinato da tre sicari mentre tornava a casa dei suoi genitori a Brancaleone, un centro di 3.500 anime in provincia di Reggio Calabria. Gli autori del delitto non sono mai stati individuati.
Nel 1987, un anno dopo l’omicidio, il capo della polizia ha inserito il maresciallo Salsone tra le vittime del dovere. Nel 2003, il sindaco di Brancaleone (Reggio Calabria) gli ha intitolato una strada e nel 2007 gli è stata dedicata la caserma della polizia penitenziaria di Palmi (Reggio Calabria). Nel 2010, il presidente della Repubblica ha insignito il maresciallo della medaglia d’oro al merito civile, con la seguente motivazione: «Consapevole del grave rischio personale si impegnò con coraggio e fermezza a ripristinare il rispetto delle regole e la disciplina all’interno di alcuni istituti penitenziari, ove erano detenuti elementi di spicco delle locali cosche criminali, rimanendo quindi vittima di un vile agguato».
Concetta Minniti, vedova di Salsone, ed i figli Paolo e Antonino, hanno chiesto il riconoscimento dei contributi previsti dalla legge 3 agosto 2004, n. 206 («Nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice»), ma il Ministero dell’interno, sulla base dei pareri espressi dalla prefettura di Reggio Calabria e dal capo della Polizia, ha negato l’erogazione dei contributi, specificando che l’omicidio non è riconducibile a una vicenda di mafia.
Con l’interrogazione parlamentare n. 5.01023 del 17 settembre 2013 (leggi il testo) abbiamo chiesto al Ministro dell’Interno se intenda disporre con urgenza il riconoscimento dei contributi previsti dalla legge in favore dei familiari del maresciallo Salsone e se intenda altresì motivare il diniego finora espresso in merito alla concessione di tali contributi che contrasta apertamente con le onorificenze assegnate al maresciallo, vittima del dovere, assassinato dalla mafia.
Scafa-Bussi: il valzer dei cementifici
Abbiamo presentato un’interrogazione parlamentare (atto n. 5-00959, leggi il testo completo) a sostegno dei lavoratori del cementificio di Scafa (Pescara) che stanno rischiando il posto di lavoro in seguito alla decisione di Italcementi di chiudere il proprio impianto a partire dal 31 gennaio 2014 anziché dal 2015, come precedentemente concordato con il Ministero del Lavoro.
L’azienda ha motivato l’anticipo della chiusura con il perdurare della crisi dell’intera filiera delle costruzioni che ha visto diminuire le proprie vendite di oltre il 50% negli ultimi dieci anni.
In evidente contraddizione con quanto asserito da Italcementi ci è parsa la notizia recente di un interessamento della ditta Toto Costruzioni Generali Spa alla realizzazione di un nuovo cementificio nei pressi di Bussi sul Tirino (Pescara), non molto distante da Scafa, mediante l’utilizzo di circa 50 milioni di euro di fondi pubblici destinati alla bonifica di quel territorio.
Tali fondi, inspiegabilmente congelati dal Commissario straordinario delegato all’emergenza socio-economico-ambientale del bacino del fiume Aterno, potrebbero dunque essere spesi per allestire un nuovo cementificio a soli venti chilometri da un altro cementificio in chiusura.
In merito alla vicenda, abbiamo chiesto l’intervento urgente del Governo non solo per tutelare i lavoratori del cementificio di Scafa, ma anche e soprattutto affinché le risorse economiche pubbliche non siano utilizzate per costruire un nuovo impianto inquinante, ma per realizzare uno sviluppo industriale e occupazionale della zona sostenibile dal punto di vista economico ed ambientale.
Tollo: 500 tonnellate di rifiuti tossici
In provincia di Chieti, e precisamente nella contrada Venna del Comune di Tollo, giace un deposito di materiali tossici da anni in attesa di essere trasferito in un’apposita discarica.
Si tratta di oltre 500 tonnellate di veleni residuati da lavorazioni industriali, composti chimici ad alto contenuto di eternit, piombo, arsenico, alluminio e fanghi di fogna provenienti da industrie del nord-est, ma anche abruzzesi e marchigiani, che versano attualmente in uno stato di completo abbandono.
Una parte del carico, malamente ricoperta, è esposta agli agenti atmosferici e non viene monitorata, un’altra invece è stata interrata nel 2007 in un area protetta da una barriera impermeabile e da un muretto in calcestruzzo e rete metallica.
Il rischio ambientale è molto elevato, se si considera che il torrente Venna, le cui acque scorrono a pochi metri dal deposito dei rifiuti, si riversa nel fiume Foro che bagna 24 comuni tra le province di Chieti e di Pescara.
Il Comune di Tollo ha più volte richiesto alla Regione Abruzzo di attivarsi per la messa in sicurezza del sito, ma non ha ad oggi ricevuto alcuna risposta.
Con l’interrogazione parlamentare n. 5/00936 del 20 agosto 2013 (leggi il testo) abbiamo chiesto al Ministro dell’Ambiente se sia a conoscenza delle condizioni della discarica di Tollo e se sia nelle sue intenzioni convocare al riguardo il Presidente della Regione Abruzzo ed i sindaci dei comuni interessati al fine di trovare urgentemente una soluzione che impedisca il verificarsi di un danno ambientale senza precedenti.
Air One: una pioggia di milioni dallo Stato
La compagnia aerea “Air One”, fondata nel 1983 dall’imprenditore abruzzese Carlo Toto, ha sottoscritto nel 2002 tre diverse convenzioni con l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (Enac), aventi ad oggetto i servizi di trasporto sulle rotte Cagliari-Milano, Alghero-Milano e Alghero-Roma.
Tali convenzioni prevedevano che per l’attività di collegamento tra la Sardegna e i due principali centri del continente, ogni anno, Air One ricevesse quasi tre milioni di euro di contributi pubblici.
Nel 2003, in seguito a presunti maggiori oneri sostenuti dalla compagnia aerea nell’effettuazione dei collegamenti sopra descritti – ed in virtù di alcune clausole contenute nelle convenzioni con l’Enac – Air One ha rivendicato il diritto a ricevere un ammontare di contributi di circa 15 volte superiore a quello originariamente pattuito.
Con tre domande d’arbitrato, previste dalle convenzioni in caso di contestazioni, Air One ha chiesto all’Enac il versamento di quasi 44 milioni di euro, oltre a interessi e spese. Gli arbitrati si sono conclusi tutti a favore della compagnia Air One a cui è stato riconosciuto il diritto a ricevere dall’Enac oltre 36 milioni di euro.
L’Enac ha impugnato i tre lodi davanti alla Corte d’Appello di Roma che ha confermato le decisioni arbitrali con la sentenza del 27 giugno 2007. La sentenza è stata successivamente confermata dalle Sezioni Unite civili della Suprema Corte di Cassazione che ha condannato l’Enac anche al pagamento di 20.000 euro per le spese di giudizio.
Con l’interrogazione parlamentare n. 5/00923 dell’8 agosto 2013 (leggi il testo), abbiamo chiesto al Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti se sia a conoscenza dei fatti sopra esposti e dei contenuti delle convenzioni sottoscritte dall’Enac ed Air One, in particolare delle clausole che hanno portato alla condanna dell’Ente a corrispondere oltre 36 milioni di euro alla compagnia aerea di proprietà di Carlo Toto.
Riteniamo che sia urgente un accertamento da parte del Governo in merito alle responsabilità dell’allora Ministro dei Trasporti e dei funzionari dell’Enac che hanno partecipato alla stipula delle tre convenzioni in favore di Air One contenenti clausole tanto onerose a carico dello Stato.
Malasanità: è urgente un intervento del Governo
Il 25 dicembre del 2010, presso il reparto di ginecologia e ostetricia dell’Ospedale “San Giovanni – Addolorata” di Roma, dopo appena cinque mesi di vita, è deceduta la piccola Giulia Maria, andata in coma a causa di un intervento cesareo tardivo, effettuato a ben quarantasei minuti dal primo allarme di ipossia lanciato dal monitor.
Un anno e mezzo più tardi, in data 29 giugno 2012, presso la stessa struttura ospedaliera, si è verificato un altro decesso neonatale causato da errore medico.
Il caso ha riguardato la morte di Marcus (questo il nome del bambino) dovuto all’errato utilizzo di una flebo di latte in polvere al posto di una contenente soluzione fisiologica, come evidenziato dalle indagini disposte dalla Procura di Roma e come riportato da alcuni quotidiani locali (Corriere della Sera/Cronaca di Roma, Il Messaggero, etc.).
Per fare luce su queste tristi vicende, in data 22 gennaio 2013 il Deputato Francesco Barbato dell’Italia dei Valori ha presentato un’interrogazione parlamentare (Atto Camera n. 4-19437) che ad oggi non ha ancora ricevuto risposta.
Con l’ interrogazione parlamentare n. 4/01539 (leggi il testo) del 1 agosto 2013, abbiamo chiesto al Ministro della Salute di quale documentazione disponga in merito ai fatti sopra descritti e quali provvedimenti urgenti intenda adottare per contrastare efficacemente il fenomeno della malasanità in Italia.
Pescara: il filobus al capolinea?
Con l’interrogazione a risposta scritta n. 4/01271 (leggi il testo completo) abbiamo chiesto al Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti e al Ministro dell’Ambiente se siano a conoscenza delle gravi criticità riguardanti l’appalto della Filovia Pescara-Montesilvano e se ritengano, nell’ambito delle rispettive prerogative e competenze, di attivarsi per valutare l’opportunità di proseguire la realizzazione di un’opera fortemente controversa, invisa ai cittadini che gravitano sul tracciato riservato e che costituiscono, principalmente, i potenziali fruitori del servizio, tanto più che l’opera, ancorché destinataria di un cospicuo finanziamento pubblico, appare priva dei fondamenti tecnico-economici a presidio di un equilibrato rapporto costi/benefici per la Comunità, in netto contrasto col dettato della Legge n. 211 del 26 febbraio 1992.
A Pescara, da oltre due anni, un buon numero di Associazioni e Comitati si batte contro la messa in opera del sistema di trasporto pubblico elettrificato denominato TPL Pescara-Montesilvano, consistente in una filovia di soli 5,750 km di percorso dal costo stimato di 31 milioni di euro.
Il finanziamento, disposto ai sensi della Legge n. 211 del 26 febbraio 1992, è stato infatti accordato dal CIPE alla Stazione appaltante in assenza del prescritto “parere favorevole” della Commissione di Alta Vigilanza (CAV).
Sussiste poi un’accertata inadeguatezza strutturale del tracciato riservato, dal momento che il sottofondo della c.d. “Strada Parco” (ex tracciato della linea ferroviaria adriatica) è privo del necessario basamento in calcestruzzo armato cui ancorare stabilmente i markers magnetici della guida automatica vincolata in dotazione al rotabile.
Il progetto, peraltro, non è mai stato assoggettato alla procedura V.I.A., ancorché dovuta, anche ai sensi della vigente normativa ambientale comunitaria. Attualmente è in corso una procedura (tardiva) di Screening di VIA a sanatoria.
Ulteriori criticità dell’appalto attengono alle difformità tecniche che sarebbero state riscontrate tra il veicolo offerto in gara, sulla carta a guida magnetica vincolata e a tecnologia altamente innovativa in grado di surclassare i rotabili proposti dalle altre due ditte concorrenti, ed il Phileas effettivamente consegnato in deposito alla Stazione appaltante GTM il 19 novembre 2011.
Dopo il tanto declamato impiego di alta tecnologia – con un investimento che supera di tre volte quello di una filovia tradizionale (la Commissione di Alta Vigilanza aveva valutato in 10 milioni di Euro il costo di una filovia convenzionale di appena 8 Km in luogo dei 31 milioni erogati dal CIPE il 19 dicembre 2002), viene nei fatti fornito un obsoleto filobus sulla tratta riservata, dal devastante impatto ambientale sul pregevole stato dei luoghi, che si trasforma poi in un normale autobus a gasolio nel centro cittadino, per di più dall’altissimo inquinamento atmosferico procurato dall’abnorme consumo di carburante (1 Km/litro).
Ciò, in evidente contrasto con le prescrizioni del Ministero dei Trasporti, di cui alla Relazione n. R.U. 59885 (TIF5)/211 PE del 6 dicembre 2006, pag.14, e con quanto risultante in sede di gara, laddove l’appalto era stato indetto e vinto con l’aggiudicazione di una commessa di 25 milioni di Euro, volta alla creazione di un sistema innovativo a tecnologia avanzata per il trasporto pubblico locale di massa a bassissimo inquinamento atmosferico.
La lotta alla Camorra nel Sud-Pontino
Da anni si assiste in tutta la zona del Sud Pontino (Formia, Fondi, Sabaudia, Gaeta e dintorni) al dilagare di fenomeni speculativi che hanno consentito una cementificazione selvaggia e frequenti fenomeni di abusivismo agevolati dalle connessioni tra politica ed imprenditoria locale. In questo intreccio hanno trovato e trovano terreno fertile le organizzazioni affaristico/malavitose campane e calabresi interessate ad investire ingenti capitali di provenienza illecita nel settore edile ed in quello turistico/commerciale. In particolare, il territorio pontino è infestato da pericolosi clan criminali come i Bardellino, Esposito/Giuliano, Mallardo, Moccia, Casalesi, Bidognetti e Fabbrocino a Formia, il clan Nuvoletta di Cosa Nostra nella zona portuale di Gaeta, il clan Schiavone/Mallardo della ’Ndrangheta a Fondi, i clan Mallardo, Fabbrocino e Schiavone a Itri e il clan Cava/Schiavone a Sabaudia.
Si è dimostrata priva di efficacia l’opera di contrasto da parte delle forze dell’ordine locali, mal distribuite sul territorio ed impreparate a svolgere indagini patrimoniali per aggredire i capitali di origine illecita. L’esistenza di due commissariati di polizia tra Formia e Gaeta, ad esempio, ha portato ad uno spreco di uomini e risorse che si potrebbero evitare istituendo – come proposto dall’Associazione Caponnetto – un unico distretto dotato di un’apposita squadra di polizia giudiziaria che consenta di aumentare i controlli sul territorio e contrastare il traffico di capitali illeciti.
Sarebbe anche utile affiancare alla direzione distrettuale Antimafia (DDA) di Roma le procedure di Latina e Cassino dotandole della delega alle indagini ex articolo 51 comma 3-bis del Codice di procedura penale per la persecuzione dei reati di cui all’articolo 416-bis del Codice penale («Associazione di tipo mafioso»). Vi sono infatti i presupposti perché si scateni a Formia una guerra di camorra tra i clan Esposito/Giuliano o Bardellino, entrati in conflitto per motivi legati ad interessi economici concorrenti ed al massiccio traffico di stupefacenti praticato da entrambi nel Sud Pontino. Il rischio di una escalation di atti di violenza è molto elevato, come lasciano presagire le risse e gli avvertimenti di stile camorristico susseguitisi nelle ultime settimane di fronte ad alcuni bar della città, come riportato dalla stampa locale.
In merito alla situazione descritta sopra, abbiamo depositato un’interrogazione a risposta scritta (Atto Camera 4-01155, leggi l’atto) per chiedere ai Ministri dell’Interno e della Giustizia, per quanto di loro competenza, se intendono adottare con urgenza ogni misura di polizia idonea a prevenire un’eventuale guerra di camorra nella città di Formia e, più in generale, nel Sud Pontino, anche attraverso l’avvio di verifiche patrimoniali a tappeto e con l’ausilio di reparti specializzati quali i gruppi di investigazione sulla Criminalità organizzata (GICO) della Guardia di finanza.
Abbiamo anche chiesto al Ministro dell’interno se ritenga di approfondire la proposta dell’associazione Caponnetto circa la creazione di un unico distretto di polizia nel Golfo di Gaeta che unifichi le funzioni dei due commissariati attualmente esistenti per contrastare più efficacemente la criminalità organizzata.
Procreazione assistita: il diritto alla diagnosi pre-impianto
Il Tribunale di Cagliari, con ordinanza del 9 novembre 2012 ha stabilito che l’Azienda Sanitaria Locale (ASL) e l’Ospedale Regionale per le Microcitemie di Cagliari, in persona del suo legale rappresentante, debbano eseguire, nell’ambito dell’intervento di procreazione medicalmente assistita, l’esame clinico e diagnostico sugli embrioni e trasferire in utero, qualora richiesto dalla donna, solo gli embrioni sani o portatori sani delle patologie da cui i genitori risultino affetti. La citata ordinanza ha disposto altresì che, qualora la struttura sanitaria pubblica si trovi nell’impossibilità di erogare la prestazione sanitaria tempestivamente in forma diretta, tale prestazione possa essere erogata in forma indiretta, mediante il ricorso ad altre strutture sanitarie.
È dunque lecito effettuare la diagnosi pre-impianto qualora “sia stata richiesta dai soggetti indicati nell’art. 14, 5° comma, Legge 40/2004 coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugati o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi, abbia ad oggetto gli embrioni destinati all’impianto nel grembo materno e sia strumentale all’accertamento di eventuali malattie dell’embrione per garantire a coloro che abbiano avuto legittimo accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita una adeguata informazione sullo stato di salute degli embrioni da impiantare.
Quanto espresso nell’ordinanza ribadisce i principi affermati dallo stesso tribunale di Cagliari e da quello di Firenze rispettivamente con la sentenza del 24 settembre 2007 e con l’ordinanza del 17 dicembre 2007. In quelle sedi, i ricorrenti avevano ottenuto che fosse dichiarato in via cautelare il diritto ad una diagnosi genetica pre-impianto al fine di trasferire e impiantare embrioni che non presentassero in forma conclamata la specifica patologia di cui erano portatori i genitori. Questi ultimi avevano ricevuto il rifiuto della struttura sanitaria alla diagnosi a seguito dell’entrata in vigore della Legge 40/2004 e delle Linee Guida sulla Procreazione medicalmente assistita di cui al decreto del Ministro della Salute del 21 luglio 2004. Sebbene non abbia riguardato direttamente il tema della diagnosi pre-impianto, va anche ricordata, per le argomentazioni e i principi desumibili, la sentenza della Corte Costituzionale dell’8 maggio 2009, n. 151, con la quale è stata, tra l’altro, dichiarata la incostituzionalità dell’art. 14, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna. Nel giudizio di legittimità costituzionale, la Corte ha messo in evidenza come, dalla stessa legge n. 40 del 2004 si evinca che la tutela dell’embrione non è assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione.
Successivamente, il Tribunale di Salerno, in data 9 gennaio 2010, ha ammesso con ordinanza la diagnosi pre-impianto sull’embrione anche per coppie fertili che presentino un rischio qualificato di trasmissione di malattie gravi e inguaribili. Lo scopo primario della diagnosi pre-impianto è infatti proprio quello di consentire ai genitori una decisione informata e consapevole in ordine al trasferimento degli embrioni ovvero al rifiuto di detto trasferimento. Ad oggi sono trascorsi otto mesi dalla pronuncia del Tribunale, ma l’Ospedale per le Microcitemie di Cagliari non ha ancora effettuato alcuna diagnosi pre-impianto e, nonostante i ripetuti solleciti, la ASL non ha ancora attivato alcuna convenzione per affidare gli esami ad una struttura sanitaria esterna, come prescritto dall’ordinanza stessa.
Con l’interrogazione a risposta scritta n. 4-01001 (leggi l’atto) abbiamo chiesto al Ministro della Salute se intenda accertare la mancata ottemperanza da parte dell’Ospedale per le Microcitemie e della ASL di Cagliari di quanto disposto dall’ordinanza del 9 novembre 2012 ed invitare dette strutture sanitarie a compiere tutti gli atti necessari per eseguire, senza ulteriore ritardo, gli esami diagnostici richiesti. Abbiamo anche chiesto al Ministro se ritenga di attivarsi perché siano assicurati su tutto il territorio nazionale i trattamenti medici previsti dalla Legge n. 40 del 19 febbraio 2004, al fine di garantire l’uguaglianza dei cittadini ed il fondamentale diritto alla salute, come previsto dagli artt. 3 e 32 della Costituzione.
Ripensiamo all’accorpamento dei tribunali abruzzesi
I deputati abruzzesi del Movimento 5 Stelle hanno chiesto (con interrogazione a risposta scritta n. 4-00515) al ministro della Giustizia di analizzare più attentamente le conseguenze negative, in termini di economicità ed efficienza del sistema giudiziario, generate dalla soppressione delle sedi distaccate dei tribunali di Avezzano e Sulmona disposta dai decreti legislativi n. 155 e n. 156 del 2012 che, in attuazione della legge 148 del 2011, hanno rimodulato i confini delle circoscrizioni giudiziarie prevedendo la cancellazione a livello nazionale di 31 tribunali e altrettante procure nonché la soppressione di 220 sezioni distaccate.
In particolare, a partire dal 13 settembre 2015, le sedi di Sulmona ed Avezzano saranno accorpate al tribunale de L’Aquila che acquisirà così gli atti degli 11.350 procedimenti presenti ad Avezzano (8.303 civili e 3.047 penali) e dei 5.349 procedimenti pendenti presso il tribunale di Sulmona (3.464 civili e 1.885 penali).
Avezzano, con i suoi circa quarantamila abitanti, è il comune di riferimento dell’intero territorio della Marsica che conta circa centomila abitanti. Avezzano risulta essere il terzo tribunale d’Abruzzo, sia per il volume di attività sia per il numero di contenziosi pendenti. La sua importanza deriva anche dalla posizione geografica, dal momento che attraverso la Marsica fanno il loro ingresso in Abruzzo quanti provengono dal basso Lazio e dalla Campania, aree tradizionalmente critiche in termini di criminalità organizzata.
Per via della sua collocazione, la sezione distaccata di Sulmona permette invece ai comuni dell’Alto Sangro e dei più distanti territori dell’Abruzzo montano di accedere alle sedi giudiziarie. In quest’ottica il tribunale di Sulmona copre un’area di servizio molto vasta, di circa 7.000 chilometri quadrati, ed assicura una vantaggiosa contiguità territoriale tra struttura penitenziaria e giudiziaria, visto che all’interno della propria struttura penitenziaria è ubicato uno dei più grandi e importanti carceri del centro-sud.
I parlamentari abruzzesi hanno evidenziato che il tribunale di Sulmona ha peraltro avviato da tempo il cosiddetto «Processo telematico» ed è attualmente tra le realtà operative più virtuose da questo punto di vista. L’innovazione delle procedure ha infatti consentito di aumentare sensibilmente la quantità di atti (citazioni, ricorsi, memorie difensive, decreti, sentenze, e altro) trasmessi in via telematica attraverso il sistema certificato.
Non vi è dubbio che la soppressione delle sezioni distaccate di Avezzano e Sulmona porterebbe ad un aumento dei carichi di lavoro per i tribunali centrali, con conseguente allungamento della durata dei processi ed ulteriore aggravio di costi per la collettività.