Tollo: 500 tonnellate di rifiuti tossici

In provincia di Chieti, e precisamente nella contrada Venna del Comune di Tollo, giace un deposito di materiali tossici da anni in attesa di essere trasferito in un’apposita discarica.

Si tratta di oltre 500 tonnellate di veleni residuati da lavorazioni industriali, composti chimici ad alto contenuto di eternit, piombo, arsenico, alluminio e fanghi di fogna provenienti da industrie del nord-est, ma anche abruzzesi e marchigiani, che versano attualmente in uno stato di completo abbandono.

Una parte del carico, malamente ricoperta, è esposta agli agenti atmosferici e non viene monitorata, un’altra invece è stata interrata nel 2007 in un area protetta da una barriera impermeabile e da un muretto in calcestruzzo e rete metallica.

Il rischio ambientale è molto elevato, se si considera che il torrente Venna, le cui acque scorrono a pochi metri dal deposito dei rifiuti, si riversa nel fiume Foro che bagna 24 comuni tra le province di Chieti e di Pescara.

Il Comune di Tollo ha più volte richiesto alla Regione Abruzzo di attivarsi per la messa in sicurezza del sito, ma non ha ad oggi ricevuto alcuna risposta.

Con l’interrogazione parlamentare n. 5/00936 del 20 agosto 2013 (leggi il testo) abbiamo chiesto al Ministro dell’Ambiente se sia a conoscenza delle condizioni della discarica di Tollo e se sia nelle sue intenzioni convocare al riguardo il Presidente della Regione Abruzzo ed i sindaci dei comuni interessati al fine di trovare urgentemente una soluzione che impedisca il verificarsi di un danno ambientale senza precedenti.


Air One: una pioggia di milioni dallo Stato

La compagnia aerea “Air One”, fondata nel 1983 dall’imprenditore abruzzese Carlo Toto, ha sottoscritto nel 2002 tre diverse convenzioni con l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (Enac), aventi ad oggetto i servizi di trasporto sulle rotte Cagliari-Milano, Alghero-Milano e Alghero-Roma.

Tali convenzioni prevedevano che per l’attività di collegamento tra la Sardegna e i due principali centri del continente, ogni anno, Air One ricevesse quasi tre milioni di euro di contributi pubblici.

Nel 2003, in seguito a presunti maggiori oneri sostenuti dalla compagnia aerea nell’effettuazione dei collegamenti sopra descritti – ed in virtù di alcune clausole contenute nelle convenzioni con l’Enac – Air One ha rivendicato il diritto a ricevere un ammontare di contributi di circa 15 volte superiore a quello originariamente pattuito.

Con tre domande d’arbitrato, previste dalle convenzioni in caso di contestazioni, Air One ha chiesto all’Enac il versamento di quasi 44 milioni di euro, oltre a interessi e spese. Gli arbitrati si sono conclusi tutti a favore della compagnia Air One a cui è stato riconosciuto il diritto a ricevere dall’Enac oltre 36 milioni di euro.

L’Enac ha impugnato i tre lodi davanti alla Corte d’Appello di Roma che ha confermato le decisioni arbitrali con la sentenza del 27 giugno 2007. La sentenza è stata successivamente confermata dalle Sezioni Unite civili della Suprema Corte di Cassazione che ha condannato l’Enac anche al pagamento di 20.000 euro per le spese di giudizio.

Con l’interrogazione parlamentare n. 5/00923 dell’8 agosto 2013 (leggi il testo), abbiamo chiesto al Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti se sia a conoscenza dei fatti sopra esposti e dei contenuti delle convenzioni sottoscritte dall’Enac ed Air One, in particolare delle clausole che hanno portato alla condanna dell’Ente a corrispondere oltre 36 milioni di euro alla compagnia aerea di proprietà di Carlo Toto.

Riteniamo che sia urgente un accertamento da parte del Governo in merito alle responsabilità dell’allora Ministro dei Trasporti e dei funzionari dell’Enac che hanno partecipato alla stipula delle tre convenzioni in favore di Air One contenenti clausole tanto onerose a carico dello Stato.


Il nostro “contro-piano carceri”

https://www.youtube.com/watch?v=2cdzs_pqz9M

Come abbiamo riferito ieri pomeriggio in una conferenza stampa (vedi il video qui a fianco), abbiamo elaborato un piano carceri alternativo basato sui dati ufficiali del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ed ispirato ai principi di economicità, tempestività, sostenibilità ambientale e rispetto dei diritti umani.

Il progetto consente, a fronte di una spesa di 355 milioni di euro, di raggiungere una capacità complessiva di oltre 69mila posti per i detenuti, facendoli vivere in un ambiente salubre, senza costruire nuovi edifici e tenendoli vicini alle loro famiglie.

Attraverso un più corretto utilizzo dei fondi a disposizione, l’Italia potrebbe uscire dall’emergenza in due anni e, soprattutto, rispettare le prescrizioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. Si possono infatti creare i posti che mancano spendendo molto meno e agendo più rapidamente, evitando amnistie e facendo a meno del Commissario straordinario, durante la cui amministrazione non sono stati impiegati 228milioni di euro di Fondi Fas e sono state commissionate al contempo alcune discutibili consulenze.

La situazione attuale è davvero insostenibile come confermano i dati a disposizione: i detenuti in Italia sono, più o meno, 66 mila, i posti regolamentari 47.040. Dunque ne servirebbero almeno altri 19mila, che salgono a 25mila se consideriamo le strutture inutilizzabili per manutenzione e ristrutturazione. Si deve fare in fretta, visto che l’Italia ha dieci mesi per mettersi in regola, dopo la condanna della Corte europea.

Il Piano carceri attualmente in vigore ha consenganto ad oggi zero posti. Ne prevede 4.050 entro maggio 2014 e altri 1.299 successivamente attraverso le ristrutturazioni degli edifici già esistenti. Sommando anche gli spazi consegnati dal Ministero delle Infrastrutture e dal Dap, il totale sarà di 12.210 posti regolamentari, una cifra inferiore alla metà dell’attuale fabbisogno (che, ricordiamo, ammonta a 25mila nuovi posti).

Noi riteniamo assai più opportuno seguire il piano già elaborato dal Dap che non prevede nuove carceri se non un istituto da 800 posti nell’area del napoletano-casertano (costo 40 milioni di euro) e la cui ratio sta nel recupero funzionale di istituti di pena male utilizzati, nel recupero di sezioni chiuse e nella riallocazione delle cubature.

Il risparmio di risorse economiche sarebbe garantito dal fatto che il Dap ha già al suo interno una struttura di professionisti e specialisti competenti a riguardo. Mentre infatti al Commissario straordinario ogni nuovo posto costa circa 75mila euro, per il Dap la spesa preventivata è di 50mila euro.

Perché, dunque, non invertire la rotta?


Malasanità: è urgente un intervento del Governo

Il 25 dicembre del 2010, presso il reparto di ginecologia e ostetricia dell’Ospedale “San Giovanni – Addolorata” di Roma, dopo appena cinque mesi di vita, è deceduta la piccola Giulia Maria, andata in coma a causa di un intervento cesareo tardivo, effettuato a ben quarantasei minuti dal primo allarme di ipossia lanciato dal monitor.

Un anno e mezzo più tardi, in data 29 giugno 2012, presso la stessa struttura ospedaliera, si è verificato un altro decesso neonatale causato da errore medico.

Il caso ha riguardato la morte di Marcus (questo il nome del bambino) dovuto all’errato utilizzo di una flebo di latte in polvere al posto di una contenente soluzione fisiologica, come evidenziato dalle indagini disposte dalla Procura di Roma e come riportato da alcuni quotidiani locali (Corriere della Sera/Cronaca di Roma, Il Messaggero, etc.).

Per fare luce su queste tristi vicende, in data 22 gennaio 2013 il Deputato Francesco Barbato dell’Italia dei Valori ha presentato un’interrogazione parlamentare (Atto Camera n. 4-19437) che ad oggi non ha ancora ricevuto risposta.

Con l’ interrogazione parlamentare n. 4/01539 (leggi il testo) del 1 agosto 2013, abbiamo chiesto al Ministro della Salute di quale documentazione disponga in merito ai fatti sopra descritti e quali provvedimenti urgenti intenda adottare per contrastare efficacemente il fenomeno della malasanità in Italia.